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ra reale, verosimile e favoloso, il Cinquecento e il Seicento sono anche epoche di “mostri”, di creature da “mostrare”, perché, in positivo o in negativo, suscitavano meraviglia per la loro eccezionalità. Nell’epoca delle scoperte geografiche, nulla vieta che qualche navigatore s’imbatta in un mondo favoloso, abitato da sirene e centauri, grifoni e basilischi, mentre nei racconti dei primi esploratori le terre appena scoperte si popolano di selvaggi acefali o dalla testa canina, di ciclopi con un solo occhio e di sciapodi saltellanti sull’unico enorme piede
che avrebbero usato per farsi ombra(da skiá, ombra e podós, piede).
Se nel linguaggio comune il “mostro” è una creatura spaventosa nella sua anormalità, il monstrum latino (da monere, “avvisare”) è il prodigio che ricorda agli uomini la potenza divina. È un segno, ora fasto ora nefasto, che può generare speranza o spavento, ma sempre e comunque stupore.
Nell’epoca dell’anatomia comparata, dell’evoluzione della fisiologia e dei progressi nello studio dell’embriologia, le deformità e le anomalie genetiche divengono oggetto di studi scientifico, ma nei grandi teatri della natura in cui ogni essere deve essere catalogato, gemelli siamesi e animali a tre zampe convivono con tritoni e serpenti a sette teste e la descrizione di “mostri” reali, uomini e animali portati in tournée per l’Europa, esposti nelle corti e nelle fiere come fenomeni da baraccone, spesso si confonde con i racconti del mito e degli autori antichi.
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