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medici antichi consideravano la chirurgia (cheirourghia, “lavoro manuale”, da cheir, “mano” e ergon, “lavoro”), una parte fondamentale della medicina, perché rappresentava, con la dietetica e la farmacopea, una delle possibili vie di guarigione. I medici antichi quindi operavano sul campo e consideravano la tecnica e la manualità parte integrante del loro bagaglio culturale.
E’ nel medioevo che la figura del medico, filosofo e letterato, esperto conoscitore e glossatore degli antichi, si allontana sempre più da quella del chirurgo, barbiere o cerusico, capace di operare per apprendimento diretto, ma privo di conoscenze teoriche.
Se presso gli Arabi resiste la tradizione dei grandi medici chirurghi, come Albucasis, la rinascita della chirurgia in Occidente ha inizio nel XIII secolo e ha radici italiane, con le scuole di Parma, Bologna e Salerno, dove la chirurgia diviene materia di studio supportata dai primi manuali teorici, che grazie all’intermediazione araba, possono essere confrontati con la tradizione greca.
Attraverso l’opera dei chirurghi italiani che operano a Lione e Parigi, la Francia è all’avanguardia nel campo chirurgico, mentre l’Italia mantiene il primato per quanto riguarda l’anatomia, il cui sviluppo sarà fondamentale per i progressi in campo chirurgico durante il Rinascimento.
Accanto al miglioramento delle conoscenze anatomiche altri fattori entrano in gioco: il perfezionamento dello strumentario chirurgico e la comparsa di nuove patologie, legate all’utilizzo su larga scala delle armi da fuoco e a nuove malattie che velocemente si diffondono, come la sifilide.
La chirurgia del Rinascimento rafforza le sue basi teoriche, ma cresce sui campi di battaglia e negli ospedali, dove tutti i migliori chirurghi consolidano la propria esperienza.
A una generazione di medici umanisti e filologi, ne segue una di medici più pratici, abituati a misurare le proprie capacità, e il proprio successo, secondo il metro degli interventi riusciti.
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